CRITICA

I miei quadri non appartengono a nessuna delle correnti ufficiali attuali, nascono quando la mia fantasia alimentata da esperienze esteriori, ripensa ad esse e le trasforma sul piano dell’immagine, cioè del fatto artistico…

Tutto ciò non è una trovata è una cosa vecchia quanto il mondo, soltanto che gli aspetti sono innumerevoli, e perciò sembra nuova, e per me ha il grande pregio di lasciarmi intatta quella parte della personalità che vive solo a prezzo della libertà dai conformismi.

Mario Marabini

FRANCA LUGATO

GIOVANNI BIANCHI

TONI TONIATO

GIUSEPPE DE LOGU

DIEGO VALERI

PAOLO RIZZI

ELDA FEZZI

ENRICO BUDA

GUGLIELMO GIGLI

MANLIO ALZETTA

NICOLA DESSY

MIRKO VUCETICH

G. BRUGNOLI


critica

FRANCA LUGATO

[…]

(dalla conferenza MARIO MARABINI: UNO SCULTORE “SCHIVO” tenuta il 20 aprile 2022 presso Palazzo Corner Mocenigo a Venezia in occasione della mostra “INTRECCI D’ARTE E D’AFFETTI”)

In questa conferenza non mi soffermerò particolarmente sul contesto storico in cui è vissuto e ha operato Mario Marabini, aspetto, già trattato, nel corso della precedente conferenza, dal prof. Toni Toniato, ma mi focalizzerò, piuttosto, sull’aspetto più privato e intimo della sua vita.
Per analizzare la poetica e la produzione artistica di Mario Marabini si è reso necessario, al fine di produrre il suo primo catalogo ragionato, nel 2015, fare un lavoro di “scavo” molto profondo in quanto le fonti all’epoca erano davvero poche.


La mia ricerca è risultata fin da subito esclusivamente limitata all’Archivio De Grandis Marabini, che all’epoca, era ancora un “cantiere” in piena costruzione.
Per organizzare al meglio il lavoro, con Chiara Marabini, avevamo impostato una scaletta temporale: l’obiettivo era arrivare alla realizzazione del volume entro all’incirca un anno e mezzo.
La fase di ricerca sarebbe durata circa un anno, più alcuni mesi per la stesura, il controllo e la redazione del catalogo, per poi procedere alla conclusione del tutto.
Arrivata al momento della stesura del saggio biografico e artistico di Mario Marabini, come detto, le fonti a mia disposizione erano veramente molto ristrette: ero in possesso una tesi di laurea, un utilissimo dattiloscritto di Toni Toniato, la memoria scritta di De Logu, suo docente all’Accademia di Belle Arti di Venezia, ed infine soprattutto i ricordi d’infanzia della figlia Chiara.
Solo in un secondo momento, grazie ad un lavoro di riordino di una libreria domestica, sono venuti alla luce, chiusi in un faldone, tutti i documenti relativi alla vita e alle opere dell’artista, così come erano stati amorevolmente e ordinatamente conservati dalla moglie Luigina De Grandis.
In questo modo abbiamo quindi potuto integrare ulteriormente la stesura e verificare la correttezza di quanto già scritto.
Tale premessa credo sia necessaria per avvicinarmi in punta di piedi a questo personaggio straordinario.
Comincerei con una piccola e rapida nota biografica: nato a Bologna nel 1923, egli trascorre l’infanzia a Venezia, dove la famiglia si era trasferita. Il padre, Ottone Marabini, di origine emiliana era sceso nella città lagunare in cerca di lavoro dopo aver compromesso il proprio patrimonio con il gioco. La madre, Maria De Manzano, discendeva da una nobile famiglia friulana, proprietaria di un castello nei pressi di Udine che dovette vendere per riparare ai debiti del marito.


Il padre, a Venezia, per garantire un certo tenore di vita alla famiglia, lavora come falegname e ciò è significativo perché ci riconduce a quell’aspetto della manualità molto presente in Mario e, probabilmente, ereditata dal padre.
Mario cresce quindi con l’affetto dei genitori e, soprattutto, del fratello maggiore, Ottone, di quattro anni più vecchio, che costituirà per lui un riferimento costante ed imprescindibile. La famiglia sosterrà sempre le doti artistiche dei due fratelli.


Lacunosa è, ad oggi, la ricostruzione dell’infanzia e della prima adolescenza di Marabini e, di conseguenza, anche la conoscenza della sua formazione scolastica.
Si sa, invece, che nel 1941, a 18 anni, affronterà la leva presso il Distretto Militare di Venezia.
È nell’anno seguente, il 1942, dopo il congedo militare, che comincia il suo percorso artistico inizialmente come mosaicista, a seguito, soprattutto nei primi anni, del fratello Ottone, al quale è, come detto, molto legato.
Alcuni documenti risalenti a quel periodo attestano le sue collaborazioni con la ditta veneziana Padoan, per imparare la tecnica del “rovescio su carta” e le varie tecniche del mosaico.
Venezia, in quegli anni, è uno dei centri di formazione più importanti per giovani mosaicisti, e la tecnica del mosaico aveva riacquisito dignità e autonomia artistica, divenendo, come vedremo, spesso parte integrante dell’architettura.


Per tutto l’arco della sua vita Mario continuerà a legarsi a questa forma d’arte anche con opere monumentali molto importanti e commissioni pubbliche, soprattutto in collaborazione con il professore Romualdo Scarpa, fino a giungere al suo grande mosaico, “Notturno veneziano”, che gli permetterà di partecipare alla Biennale del ‘62 e durante la cui realizzazione la sua esistenza si interromperà tragicamente.
La prima fase dell’esperienza artistica di Mario, si interrompe bruscamente nel ‘43, a causa della chiamata alle armi. Il suo percorso artistico e di formazione scolastica fu infatti un po’ accidentato e diverso rispetto a quello tradizionale, a causa delle vicende belliche che lo videro coinvolto.
Durante la Seconda Guerra Mondiale egli combatte a Verona, a Viterbo, nelle Puglie, nell’Appennino Tosco-Emiliano e in quello Umbro-Marchigiano; facente parte del Reggimento Paracadutisti Nembo, egli cadrà prigioniero in un’esperienza drammatica che si porterà dietro lungo il corso della sua vita, traducendosi in quell’indole malinconica che lui cercherà sempre di rimuovere, ma che, malgrado tutto, rimarrà sempre fortemente presente in lui negli anni della sua maturità.
Le violenze subite durante la carcerazione e la drammatica atmosfera dei mesi di prigionia saranno riproposte dal Marabini in alcune opere pittoriche che trasmettono una forte tensione emotiva. Tra queste spicca l’intenso olio “Ricordi di guerra”, di soggetto autobiografico, nel quale dalla silhouette del carceriere in ombra, si solleva un incombente braccio e la mano a forma di artiglio si staglia nella luminosità al centro della composizione, mentre il prigioniero riverso a terra, su un pavimento a scacchiera, disegnato prospetticamente, sembra quasi schiacciato e non avere la forza di rialzarsi.


Dai ricordi della moglie Luigina De Grandis il dipinto è legato ad un episodio realmente vissuto dal Marabini durante la prigionia e che rimase vivo nella memoria dell’artista rendendolo tormentato e inquieto. Furono catturati e giustiziati dai tedeschi alcuni dei suoi compagni partigiani e Mario riuscì a salvarsi inizialmente perché aveva simulato la morte, ma soprattutto grazie ad un gesto magnanimo dell’ultimo soldato tedesco rimasto.
Nel 1945 finisce l’esperienza bellica e, una volta tornato a Venezia, riceve tutta una serie di attestazioni al valore molto importanti, le quali, però, non verranno mai da lui esibite, ma, al contrario, tenute nascoste: questo atteggiamento ci fa ben comprendere il suo carattere “schivo”, aggettivo che ho voluto, per tale motivo, mettere tra virgolette all’interno del titolo di questa conferenza, come una citazione tratta dal testo di Giuseppe De Logu.
Tale aggettivo fa riferimento, infatti, a questo aspetto riservato del suo carattere, ma non oscura affatto la componente molto affabile e allegra, da buon bolognese, del suo essere e del suo rapportarsi con gli altri.
Gli anni del Secondo Dopoguerra sono un periodo di rivitalizzazione e rilancio per la città lagunare e il suo panorama artistico: sono anni di ripresa, di rinascita, di dibattiti e fertili discussioni intellettuali nelle trattorie locali, di rifiorire delle gallerie e, soprattutto, di riapertura della Biennale d’Arte.
Per la famiglia Marabini sono anni ugualmente densi ed importanti: nel ‘56 la Fondazione Bevilacqua La Masa assegna ad Ottone e alla sua compagna Valeria Rambelli uno studio d’artista a Palazzo Carminati; in questo atelier, che si pone come un punto di ritrovo, una sorta di cenacolo teosofico in cui le idee staineriane erano sempre molto presenti, gravita anche Luigina De Grandis ed è probabilmente nel corso di queste serate che avviene il primo incontro tra Mario e la giovane pittrice, sua futura moglie.
Sarà proprio Luigina e spingerlo a riprendere gli studi nel 1948, all’età di 25 anni, iscrivendosi alle lezioni serali dell’Istituto d’Arte e conseguendo, tre anni dopo, il diploma di Maestro d’Arte.
Tale titolo gli permette, dal ‘52 di intraprendere l’attività di insegnante di disegno nella provincia veneziana; attività che porterà avanti lungo tutta la sua breve vita, portandolo a diventare un professore molto amato sia dagli alunni che dai colleghi.


Anche quando nel 1955 deciderà di iscriversi all’Accademia di Belle Arti di Venezia, la frequenterà da studente-lavoratore.
Nel corso degli anni Cinquanta, parallelamente alla frequentazione scolastica, egli continua a dedicarsi con grande interesse all’arte del mosaico. Nel 1950 con Giuseppina Seppi, sotto la guida del maestro Romualdo Scarpa, Marabini realizza il ciclo di mosaici della Stazione Ferroviaria di Trento.
Nel ‘53 sposa ad Assisi la pittrice veronese Luigina De Grandis e l’anno seguente nasce la figlia Chiara.
Nel ‘55, come detto, si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Venezia per seguire il corso di scultura tenuto dall’abruzzese Venanzo Crocetti, che aveva ereditato la cattedra di Arturo Martini.
L’intera frequenza al corso di scultura è, come detto, da studente-lavoratore; continua infatti a prestare servizio come docente di disegno in alcune scuole della provincia veneziana.
L’anno seguente la cattedra passa al veneziano Alberto Viani con il quale Marabini si diplomerà nel 1959. Il percorso accademico di Mario si svolge quindi prevalentemente presso la cattedra di Viani.  Tra i docenti da lui più apprezzati nei tre anni di Accademia, era presente sicuramente Giuseppe De Logu, professore di Storia dell’Arte, per lui punto di riferimento molto solido ed importante; famosi sono i dibattiti tra De Logu e i suoi allievi tra cui, oltre a Marabini, ricordiamo anche Mario Guadagnino, presso la trattoria storica veneziana “Dalla Maria”, in campo San Tomà.
È sicuramente da ascrivere all’insegnamento classicista di De Logu il grande peso che avrà l’arte classica e il Rinascimento nella cultura e nell’opera di Mario.
Ad egli si deve anche l’avvicinamento di questi giovani allievi al mondo del teatro, ambito ampiamente scandagliato dallo stesso Marabini, tanto che un’intera sezione della mostra è riservata ai bellissimi bozzetti scenografici da lui dipinti.
Se non siamo in possesso di notizie certe relative alla realizzazione e all’utilizzo di questi progetti scenografici presso i teatri veneziani, né ad un impegno continuativo del Marabini come scenografo, sappiamo però con certezza che egli si dedicò, insieme ai compagni di corso Tramontin e Guadagnino, alla realizzazione di sculture di cartapesta per alcune scenografie veneziane.
Le sue continue frequentazioni di mostre, chiese, musei, in particolare Ca’ Pesaro, spesso stimolato proprio da De Logu, lo portano alla conoscenza della figura di Medardo Rosso a cui dedica, in tal senso, parecchi schizzi e disegni, conservati gelosamente all’interno dell’Archivio De Grandis Marabini.


A testimonianza di quegli anni è significativo citare il ritratto a Luigina De Grandis da lui realizzato nel 1953, anno della loro unione; una fotografia di Chiaretta che gioca con una scultura in gesso del padre raffigurante un toro, soggetto ricorrente nella poetica del Marabini, che in quell’occasione diventa un giocattolo per la figlioletta; ed infine il dipinto “La bottega dei giocattoli”, ispirato al celebre negozio “Pettenello” di Campo Santa Margherita, dove abitavano, a rappresentanza di un ciclo di dipinti da lui realizzati con uno spirito giocoso e dedicati proprio alla piccola Chiara.


Verso il ‘57 la sua carriera incomincia ad imporsi nei confronti della critica, non solo locale, ma anche nazionale: vince un Premio di scultura a Bassano del Grappa e uno di pittura a Badia Polesine.
A quell’anno appartiene la fotografia ritraente i due coniugi all’inaugurazione di una collettiva presso la galleria veneziana Bertoletti.
Si intensificano anche gli appuntamenti espositivi di una certa rilevanza a Venezia, dove lo troviamo presente con continuità all’evento annuale della Collettiva dei Giovani Artisti della Fondazione Bevilacqua La Masa.
Nel ‘59 attraversa un momento non propriamente felice in seguito all’assegnazione di una cattedra nella lontana Teramo che lo costringerà a lasciare la famiglia e Venezia per un anno. La sua lontananza da Venezia e la nostalgia per la moglie Luigina e la figlia Chiara renderanno questo periodo per lui molto frustrante.


Al suo ritorno, il ‘60 e il ‘61 sono gli anni artisticamente più produttivi: gli anni di una sperimentazione che sta prendendo sempre più corpo e si fa sempre più manifesta. In questa fase egli si concentra prevalentemente sullo studio della figura umana e sulla produzione di piccole ed eleganti figurine in bronzo e cera che riscontreranno, presso la critica non solo veneta, giudizi positivi e apprezzamenti.
Si moltiplicano in questi anni le sue esposizioni personali, anche al di fuori del territorio veneto; citiamo, ad esempio, le sue mostre a Cremona, con il fratello Ottone, e a Teramo, dove riscuote lusinghieri commenti da parte della critica.
A partire dal ‘61 la sua produzione scultorea inizia a misurarsi anche con le grandi dimensioni, aspetto fino ad allora tralasciato in quanto, come afferma Toni Toniato, le dimensioni contenute costituivano un grande vantaggio dal punto di vista realizzativo ed economico, risultando decisamente più vendibili all’interno del mercato dell’arte.
L’impegno che si manifesta nei lavori di questi anni e la soddisfazione per i risultati ottenuti lo spingono a volersi misurare anche nell’ambito delle commissioni pubbliche.
Al ‘61 risale la sua partecipazione al concorso indetto a Milano per il Monumento a Mazzini, dove manda vari disegni e bozzetti preparatori.
Pur non vincendo il bando, tale esperienza costituirà per Mario un’importante tappa della sua carriera, portandolo a confrontarsi con un nuovo e stimolante ambiente artistico e con le grandi dimensioni.
In ambito scultoreo egli abbraccia pienamente e definitivamente la corrente più figurativa, all’interno del panorama artistico veneziano del tempo in cui l’acceso dualismo tra figura e astrazione fa da padrone.
La scultura di Mario Marabini, tuttavia, non sposa una raffigurazione di tipo naturalista del corpo umano, andando ad abbracciare una tendenza alla sintesi formale e all’astrazione dell’anatomia.
Nel 1962 parteciperà ad un altro concorso pubblico ad Arquata Scrivia, in provincia di Alessandria, con alcuni bassorilievi ispirati alle opere e alle invenzioni di Leonardo Da Vinci e destinati all’abbellimento della Scuola Media Statale della cittadina.

Il 29 marzo 1962, mentre si sta recando in direzione di Mestre con la sua lambretta a cercare delle pietruzze per ultimare un mosaico che doveva presentare per la Biennale, su cartone della moglie Luigina De Grandis, ha una collisione mortale con un altro motociclista sul Ponte della Libertà. Questo tragico evento pone prematuramente fine al suo percorso personale ed artistico all’età di soli 39 anni.
In questo contesto, una delle opere più significative e dal pregnante valore simbolico esposte in mostra è il dipinto “Alla memoria”, risalente agli anni Sessanta, in cui Luigina De Grandis regala la sua struggente dedica all’artista Mario Marabini, appena scomparso. L’opera reinterpreta in chiave pittorica la scultura del marito “Abbandono”, inserendola in un’atmosfera onirica e sospesa, quasi chagalliana, dove il particolarissimo azzurro di Luigina, che prevale nella composizione e avvolge ogni cosa, rimanda al sentimento della malinconia.


In seguito alla scomparsa del marito, Luigina continuerà a promuovere l’arte di Mario e a tenerne vivo il ricordo attraverso mostre retrospettive, monografiche e condivise insieme a lei.
Uno tra i tanti meriti di Luigina è stato quello di raccogliere in maniera sistematica e ordinata tutta la documentazione relativa alle esposizioni del marito. Grazie all’Archivio De Grandis Marabini, conservato oggi nella casa della figlia Chiara, si è giunti a ricostruire un primo profilo biografico ed artistico che va ad arricchire con un nuovo tassello il panorama della scultura veneziana degli anni Cinquanta. La conservazione, la promozione e la valorizzazione di questa memoria è stata presa in mano dalla figlia Chiara con la costituzione dell’Archivio De Grandis Marabini, ideatore, organizzatore e promotore di mostre, pubblicazioni e ricerche, realizzate in collaborazione con Musei, Istituzioni, Fondazioni e Università.
Credo sia auspicabile, in futuro, la realizzazione di una grande mostra monografica dedicata solo a Mario Marabini, il quale nel corso degli anni è stato sempre artisticamente un po’sovrastato dalla forza e dalla personalità creativa della moglie Luigina.
In questo senso, ad elogio della mostra qui presentata “Intrecci d’arte e d’affetti”, va registrato il grande rigore ed equilibrio poetico e compositivo con qui è avvenuta la presentazione dei quattro artisti e all’interno della quale la presenza di Mario, a cospetto degli altri familiari artisti, non viene affatto sminuita, ma al contrario valorizzata ed esaltata.

A seguire voglio presentare, attraverso una veloce carrellata, quelle che sono alcune delle opere, a mio parere, più significative di Mario Marabini.

SCULTURA

Nudo Femminile, 1955 circa, gesso, 80 x 27 x 16 cm.
Tale opera appare particolarmente rappresentativa in quanto sintetizza la ricerca di Mario attorno alla figura umana, in questo caso femminile.
L’artista privilegia una sintesi delle forme, senza indagare troppo l’aspetto anatomico dei corpi, attraverso un tipo di scultura che risente fortemente della lezione plastica di Arturo Martini.
Si tratta di opere caratterizzate da un’insita anti-monumentalità, sorte da una intimistica concezione di sereno e armonioso naturalismo.

Maternità, bronzo, 60 x 20 x 10 cm.
Nell’opera in questione si assiste ad una ulteriore stilizzazione delle forme, caratterizzate da una grande grazia ed eleganza della postura.

Passi di danza, bronzo, 50 x 18 x 9 cm.
Si tratta di un’opera in cui emerge un accurato studio sul movimento che mette in risalto un interesse verso una ricerca dinamica delle forme. I corpi delle ballerine, soggetti cari a Marabini e ricorrenti nella sua poetica, vengono plasmati con movenze eleganti da linee flessuose che suggeriscono la grazia del corpo e l’idea del movimento, leggero e scattante, che si manifesta nella tensione degli arti.

Atleta, 1961, bronzo, 58 x 19 x 13 cm.
In questa scultura Marabini dedica particolare attenzione allo studio della posa e del movimento raffigurando questo nudo maschile in piedi, con il braccio destro alzato nell’atto di appoggiarsi, forse, alla rete dei campi sportivi.
Nella rappresentazione del giovane ginnasta, lo scultore appare più interessato a definire i profili, rispetto alle masse vere e proprie, seguendo lo scorrere morbido della linea nello spazio.

Tuffatore, bronzo, 63 x 53 x 12 cm.
In quest’opera Marabini raggiunge forse uno dei punti più alti della sua ricerca sul dinamismo della posa.

Primi passi, 1961, bronzo, 22 x 10 x 20 cm.
L’opera ritrae una figura materna femminile in una ricercata posa accovacciata, mentre sostiene il piccolo fanciullo (non ritratto) nell’atto dell’imparare a camminare.

Donna al sole, 1961, bronzo, 19 x 9 x 15 cm
Il soggetto ritratto da Marabini in quest’opera appare un esplicito richiamo alle sculture di Arturo Martini. In essa, risalta un accurato studio quasi “fidiaco” del panneggio, tema da lui molto approfondito nel corso degli anni, sia in campo scultoreo che grafico, rimandando ad un intento di rivisitazione dell’arte classica, secondo la nuova sensibilità novecentesca di derivazione martiniana.

Donna seduta, 1961-62, cera, 64 x 34 x 28 cm.
Quest’opera è ritenuta dal professor Toni Toniato l’approdo più alto e personale della sperimentazione scultorea di Mario Marabini. Un vero capolavoro degli anni Sessanta.

Testa di Chiaretta, 1958, gesso colorato 22 x 18 x 13 cm.
La delicata testina di Chiaretta, accarezzata dal palpitante modellato della materia, rimanda alla ritrattistica delle testine in cera di Medardo Rosso che Mario aveva studiato dal vero nel corso delle sue visite al Museo di Ca’ Pesaro.
Tale influenza è ravvisabile anche nell’opera:
Ritratto del fratello Ottone Marabini, 1955, gesso e cera, 33 x 20 x 25 cm.

Riposo o Abbandono, 1961, bronzo, 23 x 18 x 31 cm.
Tale opera, ripresa da Luigina De Grandis nel dipinto “Alla memoria”, si presenta come una sorta di “non finito”, in cui la resa fortemente espressiva del soggetto deriva dall’alternarsi della materia grezza, palpitante e vibrante con parti più finemente levigate.

Monumento a Mazzini, 1961, gesso e cera, 93 x 53 x 51 cm.
Trattasi del bozzetto preparatorio realizzato per il concorso di Milano dedicato a Giuseppe Mazzini, in occasione dei 100 anni dell’Unità d’Italia.
Il progetto prevedeva un basamento composto da elementi geometrici, dalle irregolari altezze, che doveva creare un fondale a tre gruppi di esili figure maschili ignude, plasmate con delicatezza.
Tali figure sappiamo che alludono ai tre pilastri del pensiero politico mazziniano: Concordia, Unione e Repubblica.
Sulla parte alta del basamento svetta il ritratto a figura intera di Mazzini la cui posa appare liberamente ispirata alla statuaria risorgimentale postunitaria, probabilmente apprezzata da Marabini in giro per Venezia.

DISEGNI PREPARATORI
Passando al capitolo della grafica disegnativa, è assolutamente necessario riconoscere l’importanza di Mario Marabini come disegnatore. In questo ambito egli sperimenta tantissime tecniche, muovendosi tra opere più importanti e disegni preparatori per le sculture di rara bellezza, che immortalano sul foglio la prima idea inventiva, precedente alla realizzazione concreta della scultura.

DISEGNI
Oltre ai disegni preparatori, Mario Marabini realizza anche molti disegni caratterizzati da una loro autonomia poetica, in quanto fini a sé stessi e non preparatori per le sculture.
In quest’ambito egli si misura con le più svariate tecniche grafiche e pittoriche come inchiostri, china, acquerelli, gessetto, pastelli colorati. Tra le opere più rappresentative citiamo le serie dei “Cavalli”, dei “Cavalieri”, dei “Centauri” e dei “Tori”, che costituiscono i suoi soggetti iconografici prediletti e nei quali lo studio del movimento e del dinamismo delle forme costituisce una componente molto apprezzabile, tradotta talvolta in maniera grafica, mediante l’intreccio di segni e linee, altre volte in maniera decisamente più pittorica, attraverso la sintesi della macchia ad acquerello.

MOSAICI
Ciclo di mosaici per la Stazione Ferroviaria di Trento, 1950, mosaico, Stazione Ferroviaria di Trento.
Nel 1950, con l’artista trentina Cesarina Seppi, sotto la guida del maestro Romualdo Scarpa, Mario Marabini collabora all’esecuzione del ciclo di mosaici parietali per la Stazione Ferroviaria di Trento.
Tale imponente opera comprende tredici stilizzate e raffinate grandi scene dal sapore arcaico che si ispirano al territorio, ai mestieri e alle stagioni.

Mestieri, 1956, mosaico, Istituto Tecnico Pacinotti, Mestre (Venezia)
Nel 1956 Marabini lavora ancora con il maestro Romualdo Scarpa alla realizzazione dei due grandi mosaici che si trovano nell’atrio dell’Istituto Tecnico “Pacinotti” a Mestre.
Il soggetto di queste due opere è legato al mondo della formazione didattica della scuola: dalle fonderie, alle sale macchine, dalle officine meccaniche, ai laboratori di chimica, questi mosaici colpiscono per il cromatismo acceso e squillante.

SCENOGRAFIE
Un consistente nucleo di disegni e bozzetti per scenografie e costumi teatrali testimoniano l’amore per il teatro di Mario Marabini.
Si tratta di un corpus di tempere, acquerelli e pastelli molto eterogeneo.
Solo in alcuni casi le opere son arricchite da annotazioni che ci permettono di risalire alla rappresentazione teatrale.
Una serie di bozzetti dal sapore ancora descrittivo, riguarda, ad esempio, la commedia shakespeariana “As you like it”, mentre molto fogli dal sapore metafisico richiamano piazze dechirichiane, evocativi interni e isole dei morti, memori di un gusto futurista.

[…]

(da Mario Marabini – 1923-1962, Ed. Marcianum Press, Venezia, 2015)

[…]

Oltre all’opera di Medardo Rosso, che sicuramente conosceva grazie alle frequenti visite a Ca’ Pesaro, in quegli anni di studio e di produzione plastica, l’interesse di Marabini è sicuramente rivolto verso l’ondata di rinnovamento che a Venezia aveva introdotto l’arte di Arturo Martini. Anche se l’artista si diplomerà con Alberto Viani, la sua ricerca non si avvicina mai ad un linguaggio di assoluta astrazione; al contrario, Marabini rimarrà sempre ancorato al mondo figurativo sul solco del percorso tracciato a Venezia dall’insegnamento e dall’opera martiniana.

[…]

Nel periodo di studio all’Accademia, oltre alle esercitazioni di copiatura dall’antico, Marabini realizza un nucleo di formelle in gesso dai soggetti difficilmente decifrabili. Su fondali architettonici di ascendenza classica si inseriscono metamorfici personaggi e animali con elementi simbolici che alludono alla sfera del sacro.

[…]

Un posto a sè occupano i numerosi disegni realizzati sempre in questo primo biennio degli anni Sessanta che non hanno avuto una traduzione nella plastica: raffigurano cavalli, cavalieri, centauri e tori, particolarmente amati dall’artista vista l’insistenza con la quale Marabini itera questi soggetti. In alcuni fogli passa dalla descrizione plastica delle masse, attraverso una fitta griglia di segni ad inchiostro, all’assoluta stilizzazione in cui il tratto veloce ed essenziale restituisce una sintesi figurativa oramai lontana dalla resa naturalistica. Il corpus grafico di Mario Marabini, è comunque costituito da un numero considerevole di fogli, circa 300, realizzati con diverse tecniche, dalla matita al carboncino, dalla penna alla china. Questo importante materiale ci permette di cogliere l’abilità e la raffinatezza nell’ambito della grafica disegnativa ma, allo stesso tempo, la progettualità dell’artista nella fase di invenzione delle opere plastiche.

[…]

Nel biennio 1958-1959, grazie all’interessamento di De Logu, Marabini e alcuni compagni di corso lavorano in ambito teatrale, realizzando grandi sculture in cartapesta per alcune scenografie di teatri veneziani (con Giancarlo Franco Tramontin e Mario Guadagnino realizza un leone in cartapesta per l’opera I due foscari di Giuseppe Verdi rappresentata al Teatro La Fenice nel maggio 1958; un gruppo di due cariatidi viene realizzato per il Teatro Ridotto nel 1959). Di questi anni, inoltre, ci rimane un numero consistente di disegni e bozzetti per scenografie e costumi teatrali… Si tratta di un corpus di tempere, acquarelli e pastelli, molto eterogeneo e solo in alcuni casi le tavole sono arricchite da annotazioni che ci consentono di risalire alle specifiche rappresentazioni teatrali. Una serie di bozzetti, dal sapore ancora descrittivo, riguarda la commedia shakespeariana As You Like It, mentre numerosi fogli dal sapore metafisico, richiamano piazza dechierichiane, evocativi interni e isole dei morti memori del gusto futurista.


critica

 

 

GIOVANNI BIANCHI

(da Mario Marabini – 1923-1962, Ed. Marcianum Press, Venezia, 2015)

[…]

Marabini dunque sceglie il linguaggio plastico per dare voce alla sua ricerca artistica, scelta non facile e rischiosa data la difficoltà della scultura di trovare una collocazione nel mercato artistico. Marabini si inserisce inevitabilmente nel dibattito sulla scultura che aveva un riscontro internazionale alla Biennale ma che certamente va ricondotto, per la sua definizione, in ambito locale, alle mostre dell’opera Bevilacqua La Masa.

[…]

Scorrendo velocemente le partecipazioni degli scultori alle mostre dell’opera Bevilacqua La Masa dal 1947 al 1962, basandoci soprattutto sulle opere riprodotte in catalogo, vediamo delinearsi nettamente questa cesura tra una ricerca legata principalmente alla figura umana e quella invece indirizzata verso un’espressione non figurativa, seguendo la via indicata da Alberto Viani già dai primi anni quaranta.

Sul versante del figurativo si riscontrano continue eco del magistero di Arturo Martini..


critica

 

 

TONI TONIATO

(da Mario Marabini: percorso nella scultura moderna, 2006, dattiloscritto conservato nell’Archivio de Grandis Marabini, Venezia)

[…]

La ricerca di Marabini è tesa a semplificare le forme secondo il gusto che circolava tra i giovani nella loro salutare reazione alle retoriche formalistiche del ‘900. La sua è, subito, una scultura antimonumentale, lontana da un plasticismo di maniera, scevra da nostalgie arcaiche e da pretese classicheggianti, e piuttosto aderente ad una concezione invece intimistica di sereno, armonioso naturalismo, quasi a voler meglio interiorizzare gli stimoli che gli pervenivano o che egli coglieva con mediata sensibilità dal mondo esterno.

[…]

(dalla conferenza “MARIO MARABINI. VALORI DELL’ARTE PLASTICA” tenuta il 6 aprile 2022 presso Palazzo Corner Mocenigo a Venezia in occasione della mostra “INTRECCI D’ARTE E D’AFFETTI”)

Premetto subito che il mio intervento non sarà un modello di ricostruzione storica dell’opera di Mario Marabini (Bologna 1923-Venezia 1962), questo compito è stato già validamente svolto da una studiosa come Franca Lugato che nel 2015 ha appunto curato il catalogo generale della sua produzione artistica: dai disegni ai mosaici, dai dipinti alle sculture.

Perciò vorrei provare a tracciare un diverso percorso di indagine, sia pure in modo avventuroso, anzi liberamente erratico ma, spero, non incongruo e nemmeno immotivato. Dato poi che saranno proiettate le foto di alcune opere da commentare è opportuno riesaminare intanto alcuni aspetti del suo linguaggio plastico, giudicato di solito come nostalgicamente classicheggiante e questo a cagione evidentemente della sua scelta formale rispettosa dei grandi esempi della tradizione. Eppure anche in questo senso egli ha dimostrato che la figuratività può rivestire sul piano stilistico accenti e cadenze moderne. Anzi quella sua consapevolezza di non dissipare eredità storiche lo ha portato a misurarsi con quei modelli e comunque tutto questo non gli ha impedito di aggiornare i modi della propria ragione espressiva. Per lui non si è trattato di ricorrere alla “tradizione del nuovo” bensì di pensare il nuovo come valore della tradizione. Ciò significa che non gli sono mai venute meno la volontà e la capacitò di rinnovarsi come, del resto, si potrà riscontrare dalle immagini che appariranno sullo schermo.

La scomparsa precoce ne ha interrotto la carriera proprio nel momento della maturità creativa quando la sua ricerca si volgeva a coniugare una plasticità di maggiore inventiva stilistica, riducendo il peso delle masse ad essenziali profili volumetrici e imprimendo alle figurazioni, sia pure di soggetti e temi diversi, un sentimento portato – a sua volta – a suscitare innanzitutto una accorata partecipazione emotiva.

Dopo gli esordi nei primi anni Quaranta come mosaicista accanto al fratello Ottone inizia a dipingere per poi approdare alla scultura che oramai sente come la sua vocazione principale iscrivendosi nel ’55 – già quando insegnava da anni presso scuole secondarie – all’Accademia dove nel’59 si diplomerà con Alberto Viani.

Egli compie un cammino inverso rispetto a quello di Arturo Martini a cui di solito la sua opera        viene accostata, cioè non passa dalla scultura alla pittura come era avvenuto per il maestro trevigiano, bensì dalla pittura alla scultura che peraltro resterà la sua espressione maggiore, convinto che essa vanti o detenga – come sosteneva Michelangelo – il primato fra le arti.  Si deve a questo proposito ricordare che all’Accademia ha avuto come docente di Storia dell’Arte Giuseppe De Logu il quale era solito dedicare ogni anno un corso monografico sul grande protagonista del Rinascimento. Per di più l’artista rimarrà anche in seguito molto legato a De Logu, godendo della sua stima ed amicizia, non a caso lo storico volle poi presentare la prima retrospettiva tenuta, nel 1963, alla Galleria dell’Opera Bevilacqua La Masa.

Dunque la scultura – gessi, cere, terrecotte. bronzi – costituisce il mezzo attraverso cui la sua creatività rivela una pienezza di aspirazioni e di esiti espressivi che vanno ben oltre le soluzioni formali attorno alla centralità della rappresentazione della figura umana, affrontando temi e significati quanto mai invece impegnativi e fornendo relativamente “immagini” di lampante intensità poetica.

Rifacendomi all’introduzione di Giovanni Bianchi sul catalogo della mostra “Intrecci” e che descrive in modo inevitabilmente riassuntivo l’ambiente della cultura artistica veneziana di quel periodo, mi sento di rimarcare che le conflittuali polarità si dividevano una egemonia che di fatto era basata su pregiudiziali ideologiche rispecchianti più lo scontro tra pittori figurativi e pittori non figurativi, mentre tale opposta distinzione ha in effetti pesato molto meno nel settore della scultura. Sarà perché l’immagine di una figura è geneticamente insita nella storia della scultura e d’altra parte molte sculture “astratte” sono idealizzazioni, – più o meno semplificate, se non puramente geometriche – di forme del corpo femminile.

In ogni caso l’idea stessa della scultura e dei suoi valori plastici non si identifica con la funzione dalla mera rappresentazione antropomorfa; i suoi requisiti sono comunque altri e in genere riguardano, come sempre, modi e specificità proprie da individuare magari nella composizione e modellazione della materia, nell’equilibrio delle masse, nella dinamica spaziale tra pieni e vuoti, nella cadenza dei profili lineari, dunque in tutti quegli elementi costruttivi, sintattici e lessicali, che sono la parte essenziale dei suoi molteplici linguaggi.

Semmai lo stesso Marabini ha avvertito il bisogno di acquisire conoscenze più strumentali che stilistiche di una lunga tradizione e ha guardato con uguale interesse ai migliori scultori del proprio tempo, mantenendo per indole una posizione comunque di indipendenza e di anticonformismo – immune perciò dalle seduzioni delle varie mode – convincendosi a proseguire come aveva fatto nella pittura sulla linea di una personale espressività figurativa. Questa posizione da lui assunta nel corso tra il’50’ e il 60 era a suo modo un atto di libertà e di coraggio e non certo un ostinato ripiego sui consacrati modelli del passato. E anche per questo nemmeno si presta per lui la ricorrente definizione di artista umile, modesto, schivo, viceversa quella semmai più appropriata di artista tenace, coerente, orgoglioso, il quale ha creduto di non farsi blandire dalle convenienti tendenze in voga sul mercato ma di dover seguire esclusivamente la propria ispirazione, cercando di dare voce alle istanze più autentiche della sua visione fondata su valori non solo estetici.

Del resto un uomo come lui che, finita nel ‘42 la leva militare, viene chiamato l’anno dopo a servire sul fronte di guerra in un reparto di paracadutisti, ricevendo onori per l’eroismo dimostrato e che con il ribaltamento politico del settembre del ’43 viene con altri partigiani fatto prigioniero dai tedeschi decisi a fucilarlo, riuscendo fortunatamente ad evadere e fare ritorno, in modo avventuroso, a Venezia, ebbene alla luce di tutto questo si può credete ancora che egli fosse per temperamento e condotta una persona da ritenere modesta e schiva. Certo di no, ma nemmeno presuntuosa, consapevole piuttosto delle difficoltà e delle incomprensioni cui sarebbe andato incontro, le stesse che si deve attendere chi svolge una severa ricerca, specie se questa ricerca si prospetta nel segno di un destino che non permette di poterla concludere. Infatti breve è stato il suo cammino terreno e la sua attività artistica, stroncata purtroppo d’improvviso.

Giancarlo Franco Tramontin che è stato suo compagno all’Accademia mi ha raccontato delle lunghe animate discussioni sull’arte tra lui e gli amici artisti che periodicamente si ritrovavano con De Logu ai caffè del Campo Santa Margherita o alla trattoria “Dalla Maria” in Campo San Tomà, nelle occasioni delle quali Mario sosteneva e dibatteva con calore le proprie idee, dimostrandosi comunque rispettoso e disponibile, sempre aperto al dialogo   al confronto.  E per continuare anche da parte mia quella prospettiva di raffronti. voluti o occasionali, vorrei brevemente ricordare come si presentava allora lo scenario veneziano della scultura caratterizzato con modi poi naturalmente personali da almeno tre correnti – quella se vogliamo ancora accademica o, meglio, “novecentista” rappresentata – per indicare alcuni esempi – da Baglioni e, successivamente, da Scarpa Bolla e da Lucarda; quella invece propensa a varianti figurative “moderniste” con esponenti come Barbaro, Manarin, Pavanati, Pettenello, Romanelli, Velluti, Vio, Cioffi, sui quali in maniera per ognuno differente ha contato il “verbo” – tutt’altro che morto – di Arturo Martini. Ed infine la tendenza “astratta” con Viani, Salvatore (Messina), De Toffoli, Zennaro, Tramontin, Zambon.

Sono queste le figure che Mario incontra o conosce attraverso le periodiche rassegne espositive alla Bevilacqua La Masa. E c’è una più grande “vetrina” – quella internazionale della Biennale – a cui guardare; altro riferimento parimenti obbligato per ogni artista veneziano. Occorre estendere la rete delle sollecitazioni o degli influssi provenienti certamente da Martini ma anche dagli scultori italiani e stranieri che a quel tempo esposero nei padiglioni ai Giardini. E allora mi permetto di avanzare qualche nome che in un certo senso riecheggia nelle pronunce del plasticismo figurativo dell’artista, alludendo a tale proposito sia al solenne rinnovato “arcaismo” di Marini che alla “classicità” primordiale del primo periodo di Moore, ma anche ad autori come Mascherini e Manzù, da lui ugualmente visti alla Biennale. Comunque il problema non è tanto quello di allargare la possibilità di accostamenti stilistici e di valutarne storicamente la pertinenza, bensì di dimostrare che lo scultore era attento ed informato su quanto di nuovo si era prodotto e si produceva nel mondo dell’arte plastica moderna. Non si è sentito di seguire il purismo rigoroso e ascetico di Alberto Viani ma era al corrente dei suoi “tabelloni didattici”, corredati da foto illustrative, e che lo stesso maestro predisponeva su pannelli al centro dell’aula di scultura all’Accademia per coinvolgere i suoi allievi alla conoscenza di artisti, di poeti e di filosofi contemporanei.

Anche per lui dobbiamo quindi riconoscere che culturalmente non è stato un artista “provinciale”, chiuso o fissato in un manierismo anacronistico, bensì un artista “locale” nel senso appunto di essere radicato in una lunga tradizione figurativa che avverte di dover non imitare ma ricreare secondo il proprio pensiero e la propria sensibilità. Egli fonda su questi presupposti la concezione di una plasticità ancora di “valori”, lo si può notare sin dalle prime prove eseguite con una maturità sia tecnica che espressiva davvero sorprendenti. Pure in seguito realizzerà sculture di piccolo formato anche per temi che meglio avrebbero richiesto altre dimensioni, costretto a farlo, non tanto per assecondare la propria propensione anti-retorica ed anti-monumentale quanto a causa dei costi di eventuali fusioni in bronzo. La scultura richiede un diverso impegno economico rispetto alla pittura, specie per opere di maggiori misure e per di più in quegli anni essa non beneficiava di un grande mercato e neppure aveva un largo collezionismo privato. Vale a dire un collezionismo esperto e veramente appassionato a questa pratica artistica che ha bisogno inoltre di trovare ed occupare, differentemente dalla pittura, il suo spazio, assai poco consentito in un normale appartamento.

Ad ogni caso a noi ora interessa esaminare i modi del linguaggio che egli ha adottato – il come e non la cosa – e quindi rilevare il prevalente influsso su lui esercitato dalla scultura di Martini e quanto gli ha permesso di affrancarsi da certi accenti ancora naturalistici, trovando presto soluzioni più libere e personali sino a fornire esempi di particolare sensibilità poetica. É una scultura, la sua, che rispecchia intime emozioni, talvolta fin troppo trattenute per congenita discrezione, ma ciò non toglie, in taluni esempi, lo slancio vibrante di una materia plastica che tende espandersi dal nucleo struttivo delle masse volumetriche e dai profili del contorno per invadere lo spazio esterno.

Ricerca nei corpi che raffigura – ritratti, ballerine, atleti – un senso di flessuosa armonia resa attraverso un processo di essenzializzazione più che di semplificazione delle forme. Del resto il proposito che egli si era dato per la pittura, ossia quello di riuscire a tradurre la forma in immagine, risulta meglio evidente nelle sculture sia per la varierà dei motivi figurativi che per la qualità degli esiti stilistici.

Vorrei aprire una breve parentesi ed invitarvi ad osservare le sue sculture in cera. Non è curioso che egli sia stato l’artista veneziano che più abbia guardato, anzi si sia – agli inizi della propria formazione – intenzionalmente rifatto alle opere di Medardo Rosso esposte a Ca’ Pesaro, ossia di chi aveva traghettato la scultura italiana alla modernità. E che il giovane scultore ne assuma le vibranti morbidezze luministiche in una dizione però non “impressionistica” ma già avviata a prospettare una saldatura tra classico e moderno. Si che è riuscito poi, con i bronzi come Passi di danza, Nudo femminile, Maternità, Tuffatore, Donna seduta, Idillio, a fondere i due termini nell’assolutezza di un’unica formulazione stilistica.

Mosaicista. pittore, scultore: una vita breve ma intensa, ricca di affetti e di esperienze non comuni, una carriera impegnativa animata di molteplici fervori creativi, grazie ai quali è riuscito a percorrere con tenace volontà – sulla linea pur sempre di una visione figurativa – insolite traiettorie espressive, spesso controcorrente, mostrando con ciò una autonomia di propositi e di risoluzioni.  La stessa autonomia che si ritrova nei dipinti dove vi è da notare che egli non segue la maniera pittorica dell’amatissimo fratello Ottone – sul cui esempio peraltro aveva deciso di indirizzare i propri studi, diplomandosi ugualmente prima all’Istituto d’Arte e poi all’Accademia – ma tenta subito di cercare una propria distintiva pronuncia.

Così nella scultura, dopo i primi saggi di sereno naturalismo espresso – come nei due ritratti della figlia, la piccola Chiara – attraverso un delicato armonioso modellato, il suo linguaggio figurativo vira a declinare con misurata eleganza i movimenti delle “ballerine” o a plasmare snelle figure di giovani atleti. Da qui in avanti si spinge invece verso altre soluzioni, giungendo persino a sovvertire le proporzioni morfologiche dei corpi, a prolungarne gli arti, a ridurre l’ovale dei volti, dando rilievo più ai profili che ai volumi, con lo scopo di imprimere alle forme una palpitante energia e una nuova bellezza

Persiste in queste proposizioni plastiche la risonanza di un meditativo intimismo, di un pensoso sentimento che anela a farsi portatore di valori di per sé intramontabili. Valori dei quali le pur piccole sculture sono riuscite mirabilmente a cogliere e a evocare la grandezza dei loro contenuti.

A questo punto ritengo doveroso rimarcare che l’arte, quando è tale, porta in sé e con sé qualcosa in ogni caso di inesplicabile e di imponderabile che si inscrive nell’opera al di là persino delle intenzioni dell’autore. Qualcosa che nessuna interpretazione riuscirà ad esaurirne in maniera davvero definitiva. Ma a tale proposito dovrei richiamarmi alle teorie di Maurice Blanchot che mi piacerebbe far mie; mi limito invece a definire come spazio dell’aura ciò che ci affascina dell’arte e mi chiedo se “l’infinito intrattenimento” – ciò che ogni volta ci richiama – non sia poi quello stato di ineffabile attrazione che ne spiegherebbe la sua perenne “attualità”.

Ognuno di noi ha provato simile esperienza rivedendo la stessa opera, meravigliandosi di scoprire ogni volta ulteriori possibilità sia interpretative che emozionali.

Mi ero promesso di avanzare qualche spunto per una rivisitazione della sua opera di scultore, di fornire appena delle ipotesi, non di più. Diversamente da una ricostruzione storica che ha doverosamente bisogno di considerare anche i precedenti apporti critici sull’artista vi potreste domandare perché non ne ho fatto cenno, neppure riguardo al fondamentale lavoro della Lugato E di questo mi scuso Ma lasciatemi dire che talvolta queste ”fonti”, di solito quasi mai poi contraddette anche quando appaiano discutibili e ben poco autorevoli, rischiano di essere così nuovamente convalidate e peggio ancora di orientare nell’analisi critica il giudizio dello studioso.

Ultime osservazioni: abbiamo sentito e visto che lo scultore si esprime con mezzi diverso e ogni volta le relative materie, benché giustamente trattate secondo le loro prerogative fisiche, mostrano una superficie quasi mai liscia e compatta, una superficie invece fremente di lievi e continui sussulti come se dovesse animarsi per palpitare sul respiro di un ritmo interno. Egli pratica un doppio metodo, quello di sottrarre e di aggiungere e, ancora, decanta principalmente l’andamento spaziale dei leggeri profili – cioè delle linee plastiche – sulla gravità ponderale dei volumi.

E qui pongo un quesito in forma di domanda: per vie proprie Mario Marabini opera un procedimento che tende liberare l’immagine plastica dall’imponenza visiva e materiale dei volumi, ma questa esigenza non è ciò che riuscirà a delineare la scultura a venire che si è trasformata concettualmente e fattualmente, fattasi persino filiforme, aerea, volatile, scorporandosi e fondendosi con la pluridimensionalità dello spazio.

Riflettendo invece sulla mole notevole dei disegni e fermandomi a riguardare quegli eseguiti negli ultimi anni ho sentito il bisogno di formulare un auspicio che finora ho tenuto per me ma che qui potrebbe diventare, se condiviso, un progetto finalmente realizzabile. Del resto lo si è già fatto per altri autori scomparsi. Prima serve cercare le risorse economiche e poi trovare un formatore che riesca a trasporre una di quelle immagini grafiche nella tridimensionalità fisica d’una scultura.

Tre o quattro di quei disegni erano chiaramente progetti per future sculture.

Oggi possono farsi ulteriore concreta testimonianza degli sviluppi creativi che una tragica fatalità gli ha per sempre negato, ma noi sappiamo che vive nell’opera il sogno dell’artista, e quel sogno di per sé non ha mai fine.

Interventi

Giovanni Bianchi sottolinea quali aspetti dei possibili influssi di Henri Moore che meglio si rintracciano attraverso una analisi critica della scultura Idillio

Chiara Marabini fa notare che nel 2015 lo stesso Toniato aveva considerato l’opera Donna seduta, raffigurata sulla copertina del catalogo monografico, quale un capolavoro della scultura italiana moderna, domandando allo studioso di spiegare le motivazioni che l’avevano portato a formulare tale giudizio.

Toni Toniato risponde che, a suo parere, tale requisito lo possono vantare anche altre opere dello scultore e questo per il motivo che tali opere posseggono in maniera innegabile una assolutezza di idea e di fattura, ossia una perfetta concordanza per cui la sua visione plastica si manifesta e si rispecchia nell’espressione della propria totalità. E che nella storia di un artista questa raggiunta identità espressiva, sia ideale che formale, ne fa nella sua produzione un capolavoro.


critica

GIUSEPPE DE LOGU

(da Mario Marabini, Sculture e disegni, curato da Luigina de Grandis, 1965 ca.)

[…]

Ed ecco lo scultore, il pittore, il musaicista per cui la tecnica apprese il “rovescio su carta” interpretando vari cartoni (collaborò all’esecuzione del musaico della stazione di Trento, 1950, e a quello dell’Istituto Pacinotti di Mestre, sperimentando in molti metri quadrati l’alta tecnica del “diritto sul muro”). La pratica esperienza gli fu di base quasi artigianale a più alti impegni: sculture, pitture, disegni, di cui diede saggi in mostre personali e collettive (Villa Bartolomea, Verona, 1956, a Cremona, Legnano e a Teramo, nel 1960); premiato alla Collettiva di San Vidal a Venezia, e a Bassano nel 1957 conseguendo anche un primo premio per l’ex tempore di Badia Polesine nel 1956.


critica

DIEGO VALERI

(Venezia, 3 dicembre 1964)

[…]

I suoi disegni, i suoi dipinti e le sue sculture (le sculture in cui forse, si impegna più a fondo e con passione che altrove, toccando il proprio limite di eccellenza) stanno a mostrare e a dimostrare che il suo sogno d’arte assumeva e consumava in sè tutta la realtà esterna ed interna, dei sensi e dello spirito.

Direi che in ogni sua opera c’è una interezza e una totalità di visione che la fa vivere da sè e per sè: come avviene delle autentiche opere di poesia, e soltanto di esse.


critica

PAOLO RIZZI

(da “Il Gazzettino” del 29 ottobre 1963)

[…]

I piccoli bronzetti, figure muliebri e virili, rivelano una eccezionale sensibilità plastica, modulata secondo ritmi eleganti ma non manierati. In una continua tensione verso la resa emozionale del soggetto. I disegni dal canto loro sono di una scioltezza grafica veramente rara, macchiati con chiaroscurale vivezza.


critica

ELDA FEZZI

(dalla “La Provincia” di Cremona, 30 gennaio 1960)

[…]

Che ci sia nelle sue opere una raffinata cultura è chiaro, come pure è lampante che nei disegni e nelle figure spicca una ben singolare limpidezza di taglio che si esprime nel contorno rapido e teso. Le terracotte nell’apparente grazia quasi patetica si esemplificano in una sintesi di qualità rara, calibrate nel loro equilibrio sicuro. Sono preparate da disegni il cui tratto schietto ed efficace, attraverso le varie esperienze formali, è giunto ad un rapido scatto, in cui l’originale macchia dei chiaroscuri ha lasciato il passo ad una più sobria e limpida essenzialità. Nei disegni più recenti le figure si slacciano dal loro denso torpore come toccate da una eleganza severa e delicata ad un tempo.


critica

ENRICO BUDA

(da “La vernice”, rivista d’arte varia – turismo, ottobre 1963)

[…]

Si ha la percezione precisa di come il senso architettonico ed umano vibri in ogni opera.

[…]

Vuole esprimersi attraverso la sua personalità in modo che ogni linea, ogni segno, ogni struttura, anche se frutto di sensazioni esterne, diventi emanazione di un intimo suggerimento artistico.

Vi è in tutte le opere una concezione plastica che ci riporta, sebbene erroneamente, a visioni neo-classiche, erroneamente perchè su una tipica costruzione introduce quelle espressioni emotive che permettono ad ogni segno, ad ogni movimento di esprimere qualcosa di nuovo, di diverso, di più intensamente vivo ed umano.


critica

GUGLIELMO GIGLI

(19 ottobre 1963, da Mario Marabini, Sculture e disegni, curato da Luigina de Grandis)

[…]

A lasciarsi andare solo all’onda del sentimento in questa mostra retrospettiva, a poco più di un anno dalla tragica morte, significherebbe togliere a Mario Marabini tutto quanto gli si deve come artista. E di quanto egli lo fosse son chiare testimonianze, in questa occasione, oltre le 13 sculture in bronzo, gesso e terracotta, la vasta serie di opere a china, inchiostro e carboncino, dove la rivelazione di un disegnatore prezioso ed efficace appare piena e tale da imporre l’esigenza di una vasta e, senza dubbio, più accurata revisione critica di tutto l’operato dell’artista. Se nelle prime, infatti, Marabini ha espresso gli esiti di una visione plastica, poetica e vigorosa alla stesso tempo, e nella quale gli apporti di una cultura perfettamente assimilata hanno creato la base più idonea per un racconto di estrema purezza linguistica, nei bianchi e neri egli traccia i segni più convincenti del suo discorso di uomo e di artista. E l’uomo e l’artista, in lui, coincisero meravigliosamente permettendoci così di ritrovare in ogni opera tutte le dimensioni del suo spirito..


critica

MANLIO ALZETTA

(da “La voce di San Marco”, 26 ottobre 1963)

[…]

Nelle opere del Marabini, questi giovani debbono trovare il suo alto messaggio di umanità che li deve far pensare alla grandezza dell’arte, la quale si raggiunge solo con la modestia e il sacrificio, fuori da ogni conformismo


critica

NICOLA DESSY

(da “Cronache Venete” del 1 dicembre 1963)

[…]

Sono piccole statuette dai volumi schietti, dalle superfici semplici, ridotte a volte all’essenziale quali sintesi formali, dalle forme bilanciate in ritmi severi nell’espressione senza enfasi, in un incontro schietto di superfici che stanno alla base di ogni ideazione nella giusta alternanza di lisci e di scabri in ordinata armonia.

[…]

In ognuno di quei bronzi, di quelle terracotte, di quelle pietre c’è nell’asprezza della modellazione, un godimento di un gusto arcaico della forma, cioè un senso di sanità e di gioventù.

Nelle figure sedute sono modellati tronchi giovanili nel ritmo severo delle forme accennate ma sapientemente equilibrate.

Nelle figure inginocchiate l’essenza creativa non è rimasta in superficie ma è scavata in profondità fino a trasparire nella scioltezza del movimento corporea dalla toccante dolcezza.

Nelle figure accovacciate c’è tutta la perizia dello scultore di grido, ardito e spericolato dalle soluzioni ricche di maestria ed estrosità.

[…]

Sempre ha inteso la importanza del soggetto e sempre ne ha giustificato il ritmo, la architettura intima, portando la sua perizia esecutiva a risultati sempre più perfetti.


critica

 

 

MIRKO VUCETICH

(dalla Presentazione per la Retrospettiva alla Galleria Il Cenacolo di Vicenza, 30 novembre 1964)

[…]

La coerenza è un suo metro sintetico e limpido: sia nei disegni in bianco e nero – eseguiti con le classiche tecniche della china, dell’inchiostro e del carboncino – così come negli agili e meditati bozzetti di ottima fattura e di toccante plasticità, seppe salvarsi in un travagliato clima di arte e di pseudo arte da tutte le astruserie delle mode correnti.


critica

G. BRUGNOLI

(da Il Giornale di Vicenza, 5 dicembre 1964)

[…]

Sono pochi bronzetti e numerosi disegni, ma disegni onesti, fatti su un ampio pezzo di carta da disegno, a carboncino, a penna, a china, nella vecchia onesta maniera di sempre, e da essi emana un’aria di pulizia, di rigore intellettuale, di coerenza morale che non può assolutamente lasciare insensibile chi ancora creda che l’arte sia e possa dire qualcosa.

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